Dai dischi di pane cotti sulla pietra alle bettole di Napoli, fino alla conquista di tutto il mondo: l’affascinante percorso di un piatto nato povero e sempre più ricco di storia, di ingredienti, di gusti e di gloria.
Il neolitico
Nasce l’agricoltura. Nel Vicino Oriente gli uomini cominciano a coltivare specie vegetali selezionate, farro e piccolo farro, orzo, legumi e lino. La cottura su pietra di polente di cereali tostati e macinati o di pane azzimo risale al Neolitico inferiore.
L’Antico Egitto
Il ruolo degli Egizi in questa vicenda è quello degli scopritori del lievito. Con la lievitazione gli impasti di cereali schiacciati o macinati diventano, dopo la cottura, morbidi, leggeri, più gustosi e digeribili. Si diffonde il pane.
L’Antica Roma
L’attuale frumento deriva da quello romano attraverso selezioni e incroci fra i diversi tipi di farro allora conosciuti. La parola “farina” deriva da “far”, nome latino del farro. I contadini impastano la farina di chicchi di frumento macinati con acqua, erbe aromatiche e sale, e poi pongono questa focaccia rotonda a cuocere sul focolare, al calore della cenere. I romani a volte usano dischi di pane a mo’ di piatti per contenere pietanze sugose.
VII secolo
Arriva in Italia con i Longobardi un vocabolo del germanico d’Italia (gotico, longobardo): “bizzo-pizzo”, dal tedesco “bizzen”. Significa morso. Da morso a boccone, a pezzo di pane, fino a focaccia, è un percorso logico che i linguisti chiamano un comune processo di traslato metonimico, una sineddoche a catena.
997
Nel latino medievale del Codex cajetanus di Gaeta viene per la prima volta chiamata “pizza” una focaccia. Accade di nuovo nel 1195 in un documento di Penne in Abruzzo.
1307
Nel latino medievale della Curia romana si legge “in panatteria, scilicet guindalis, pizis, caseo, lignis” e in un testo dell’Aquila del secolo XIV “pissas quatuor et fladonem unum” (il fladone è un tipico prodotto da forno abruzzese e molisano). Una “piczas casey, pizzas de pane” compare in un documento di Celano del 1387-88. Fioccano attestazioni da mezza Italia, fino alla “piza panis” nel cancelleresco di Pesaro del 1531.
1535
Nella sua Descrizione dei luoghi antichi di Napoli, il poeta e saggista Benedetto Di Falco dice che la “focaccia, in Napoletano è detta pizza”.
1600
La tradizionale schiacciata di farina di frumento impastata e condita con aglio, strutto e sale grosso continua a incontrare il favore delle popolazioni del Meridione, l’olio d’oliva prende il posto dello strutto, si aggiunge il formaggio, si ritrovano le erbe aromatiche. Agli albori del XVII secolo fa la sua apparizione una ricetta dal maestoso profumo di basilico, la pizza “alla Mastunicola” (in dialetto, del maestro Nicola). Da qui in poi il basilico assurge a ingrediente basilare e privilegiato della pizza.
1750
È solo nella seconda metà del ‘700 che si sparge infine in Italia l’uso di una bacca esotica, importata dalle Americhe: il pomodoro.
1815
La pizza è popolarissima presso il popolino, ma non la disdegnano baroni, principi e regnanti: la si offre ai ricevimenti dei Borboni, e Ferdinando IV la fa cuocere nei forni di Capodimonte, gli stessi dai quali escono le preziosissime ceramiche.
1858
La prima ricetta della pizza come la conosciamo oggi è probabilmente riportata in un trattato dato alle stampe a Napoli nel 1858, che descrive il modo in cui in quegli anni si prepara la “vera pizza napoletana”. Quando la città era ancora la capitale del regno delle Due Sicilie, Francesco De Bourcard in Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti arriva perfino a citare una sorta di pizza Margherita ante litteram, con mozzarella e basilico: “Altre (pizze) sono coperte di formaggio grattugiato e condite collo strutto, e vi si pone di sopra qualche foglia di basilico. Si aggiunge delle sottili fette di mozzarella”. Il pomodoro è opzionale: “talora si fa uso”, scrive l’autore napoletano di origine svizzera. Tra l’altro, per il condimento si può usare “quel che vi viene in testa”.
1884
Ecco il pizzaiolo, “chi fa e vende pizze, a Napoli” precisa il dizionario Zingaretti del 1922. Ce lo presenta Matilde Serao, la prima donna fondatrice di un giornale in Italia, tra le testimonianze raccolte in Napoli d’allora scritte con Edoardo Scarfoglio: “Il pizzaiuolo che ha bottega, nella notte, fa un gran numero di queste schiacciate rotonde, di una pasta densa, che si brucia, ma non si cuoce, cariche di pomidoro quasi crudo, di aglio, di pepe, di origano”. Sempre qui, la Serao racconta del primo tentativo della pizza di espatriare. Fallito. “Un giorno, un industriale napoletano ebbe un’idea. Sapendo che la pizza è una delle adorazioni cucinarie napoletane, sapendo che la colonia napoletana in Roma è larghissima, pensò di aprire una pizzeria in Roma… Sulle prime la folla vi accorse; poi andò scemando. La pizza, tolta al suo ambiente napoletano, pareva una stonatura e rappresentava una indigestione; il suo astro impallidì e tramontò, in Roma; pianta esotica, morì in questa solennità romana”.
1900-1905
“A Federico II, napoletano in tutto, piacevano quei cibi grossolani, dei quali i napoletani son ghiotti: il baccalà, il soffritto, la caponata, la mozzarella, le pizze” scrive Raffaele De Cesare nel saggio storico La fine di un regno. Nel Dizionario Moderno edito da Hoepli nel 1905, nota guida alla selva dei neologismi di allora, Alfredo Panzini così si esprime: “Pizza: nome volgare di una vivanda napoletana popolarissima. Consiste in una specie di sfoglia o stiacciata di farina lievitata moltissimo. Cosparsa di pomidoro, formaggio fresco, alici ecc., a piacimento del cliente, mettesi al forno dove gonfia e cuoce lì per lì”. Ciò che ha portato un piatto di così basso lignaggio a divenire un simbolo italiano famoso in tutto il mondo, un pianeta in cui si mangiano 5 miliardi di pizze all’anno, è una magia. Fatta di pane, pomodoro, mozzarella e basilico.